Il mio primo impiego da abiti puliti, giovane neolaureato in Psicologia, è stato formare alla sicurezza diversi gruppi di lavoratori presso una famosa agenzia interinale. Paga microscopica, ma almeno indossavo la giacca. All’epoca la Legge era la 626 (oggi 81/2008). Il mio compito era spiegare alle persone come evitare gli infortuni, la corretta posizione per sollevare i carichi da terra, ecc. La difficoltà principale era riuscire a farmi capire: spesso gli utenti erano stranieri con una conoscenza ridotta della lingua. Alcuni di loro non capivano nemmeno una parola di italiano. A volte ridevano come pazzi guardando le mosse da scimmia che facevo con in mano una scatola. La mia carriera da formatore è iniziata con tutti questi limiti comunicativi, e oggi posso dire per fortuna. Catturare l’attenzione di un pubblico che non capisce la tua lingua, che si trova a migliaia di km dalla famiglia, senza un lavoro e soprattutto senza un briciolo di motivazione mi ha permesso di superare alcuni limiti, soprattutto la vergogna.
Tra i lavoratori, dovevo formare alla sicurezza anche i candidati a posizioni impiegatizie, destinati a lavorare in ufficio. Ai miei allievi spiegavo come posizionarsi di fronte al computer, come utilizzare il mouse e, soprattutto, come gestire le pause: dopo 50 minuti passati davanti allo schermo del pc, alzarsi e passeggiare per una decina di minuti, per proteggere schiena e occhi. E ogni tanto (durante i 50 minuti di lavoro) alzare lo sguardo e fissare un punto lontano (dentro la stanza o fuori dalla finestra). Queste due semplici regole, specialmente la 50+10, da allora sono diventate un’abitudine per me.
Punteggiare la giornata lavorativa con pause regolari è una pratica saggia, soprattutto se fai un lavoro delicato, con molte responsabilità. Diverse ricerche suggeriscono la necessità di prevedere dei momenti di riposo durante il giorno, per non incorrere nella celebre decision fatigue. Prendere decisioni è un’attività che richiede molte risorse, soprattutto da un punto di vista cerebrale. Più decisioni prendiamo nella giornata, più ci stanchiamo cognitivamente. Diventa sempre più difficile valutare le alternative disponibili, e questo influisce sulla qualità della decisione finale. A me capita ogni volta che vado con mia moglie ad acquistare dei vestiti (per me ovviamente, se sono per lei rinuncio a priori e sto a casa). Premesso che per l’abbigliamento ho un gusto pari a quello di una lucertola, non mi posso permettere il lusso di far compere da solo. Quindi per evitare figuracce devo far valutare attentamente tutto alla mia consorte. Che chiaramente mi propone in prova 10 paia di pantaloni, e cerca di convincermi a comprarne almeno la metà: “così li alterni”. Di solito dopo una ventina di minuti sto per avere un esaurimento, e in preda alla decision fatigue compro l’ultimo pantalone indossato:
“Sicuro che non vuoi riprovare gli altri per un confronto?”.
“Si tesoro, sono sicuro, questi mi piacciono veramente”, e sfuggo alla prigionia.
Chissà quante volte ti sarà capitata una situazione simile (se sei un maschio sicuramente tante, e magari nella versione hot, accompagnato da tua madre), affaticato dalle numerose decisioni prese durante la giornata, nell’ultima scegli rapidamente dicendoti “ma si, chissenefrega”. In realtà la decision fatigue può portare a dei risvolti anche drammatici, soprattutto in contesti delicati come la Giustizia. Nel 2011 un gruppo di ricercatori ha pubblicato un interessante articolo intitolato “Extraneous factors in judicial decisions”, nel quale si dimostra che non proprio tutte le decisioni in ambito legale sono determinate da fattori oggettivi. Anzi. Ecco l’ambizioso obiettivo di Danziger e collaboratori: verificare quanto fosse scientificamente dimostrabile il famoso detto “Cosa ha mangiato il Giudice a colazione?”. Sono state valutate 1112 decisioni giudiziarie in un periodo di dieci mesi, relative a detenuti condannati per appropriazione indebita, aggressione, furto, stupro ed omicidio. Il 78,2% dei casi presi in esame riguardava la richiesta di libertà vigilata. In una giornata divisa in tre blocchi separati da due pause, i Giudici erano chiamati a decidere, dopo aver ascoltato i detenuti, se concedere o meno la libertà vigilata.
We find that the likelihood of a favorable ruling is greater at the very beginning of the work day or after a food break than later in the sequence of cases.
Risultato? I condannati sentiti nella prima parte del blocco, quando cioè il Giudice era mentalmente fresco dopo una pausa, mostrano un 65% di probabilità di ottenere la libertà vigilata. Gli ultimi detenuti, quelli prima del break, hanno invece pochissime possibilità di ottenerla (quasi zero). Dai uno sguardo alla Figura 1 dell’articolo in questione. Pare quindi che dopo numerose decisioni i Giudici tendano a mantenere lo status quo (ovvero la detenzione), ma questa tendenza si ribalta immediatamente dopo aver mangiato un panino e preso un caffè. Mica paglia.
Altre ricerche confermano questa regola: il numero di pause influisce sul modo in cui prendi decisioni importanti. Nel 2014 sul sito dell’APA (American Psychological Association) appare un articolo intitolato “The Impact of Time at Work and Time Off From Work on Rule Compliance: The Case of Hand Hygiene in Health Care”. Parliamo di igiene delle mani tra il personale sanitario, che impatta pericolosamente sulla salute del paziente. Anche in questo caso, i carichi eccessivi di lavoro associati a limitati momenti di pausa riducono l’aderenza alle prescrizioni igieniche obbligatorie in ambito sanitario.
Tutti ci lamentiamo per lo stesso motivo: dobbiamo fare troppe cose, non riusciamo mai a rilassarci. La pausa è importante, ma impopolare. E questo è legato ad un vecchio retaggio secondo il quale più fai meglio è. Chi si ferma è perduto (film, 1960). Ed ecco che lo sguardo del capo piove minaccioso se ti alzi dalla scrivania. Questo perchè lui non conosce la ricerca. Altrimenti saprebbe che durante un break il nostro cervello riesce a consolidare (se preferisci digerire) e organizzare le informazioni apprese.
La pausa è importante, ma impopolare.
O magari tu sei uno di quelli che, per dimostrare la tua grande professionalità, non stacchi mai durante il giorno, nemmeno per un caffè. Adesso sai che sarebbe meglio organizzare la tua agenda prevedendo non solo la pausa pranzo, ma anche piccoli e frequenti momenti per riempire il serbatoio di altra energia mentale, magari seguendo la regola 50+10. Se sei un runner sai di cosa parlo: il tempo in gara lo fai se impari a gestire bene gli sforzi mentre corri, ma soprattutto se sfrutti al massimo i momenti di ristoro. Le pause quindi non sono perdite di tempo, ma fanno parte di una pianificazione ottimale di una performance. Pensa alle gare automobilistiche. E se è vero nello sport, puoi star certo che funziona anche sul lavoro.
Attenzione, ho detto pausa. Il che non significa iniziare a smanettare con lo smartphone, comprare dieci libri su Amazon, ecc. Per pausa intendo: ti alzi, cambi contesto, assumi zuccheri (caffè, frutto, ecc.) e ti prendi 3-5 minuti in cui ti fermi e metti il cervello in folle, permettendoti di riorganizzare tutte le informazioni del blocco precedente. Stai lì e guardi.
Immagina di fare un 3 ore di salita in montagna: arrivi su, ti siedi e subito estrai il cellulare per inviare dieci email e fare acquisti online. Poi ti alzi e cominci a scendere. Senza aver contemplato nemmeno per due secondi il panorama. E pensa di farlo ogni giorno della settimana. Alla fine odierai la montagna.
Come dici? E’ proprio quello che hai fatto durante le vacanze?
Chiamami, posso aiutarti.
Facciamo un riassunto finale:
1) regola 50+10 (ogni 50 minuti di lavoro prenditi 10 minuti di pausa)
2) la pausa ti permette di incamerare nuova energia mentale (quindi ricordati di mangiare qualcosa)
3) se devi prendere molte decisioni durante il giorno, metti quelle delicate subito DOPO la pausa, quando sei più fresco
E soprattutto:
4) se non vuoi ritrovarti l’armadio pieno di vestiti che non ti piacciono cerca di andare a fare acquisti al mattino dopo colazione.